Associazione Opera della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo

Il salmo 129 (130): dall’angoscia alla speranza

Nel tempo quaresimale, un salmo che può illuminare il cammino di conversione verso la Pasqua, è il Salmo 129 (130). Appartiene al piccolo gruppo di quindici salmi di pellegrinaggio del Salterio (o canti delle salite; dal 119/120 al 133/134), che probabilmente accompagnavano il pellegrinaggio degli israeliti verso Gerusalemme e verso l’incontro con Dio nel tempio. La tradizione cristiana lo ha inserito nel novero dei sette salmi penitenziali. La sua costruzione poetica è molto accurata ed esprime in modo sapiente la dinamica del dialogo e dell’incontro tra l’orante e Dio. Possiamo infatti facilmente suddividere il Salmo in quattro piccole strofe:

 

  • i vv. 1-2, con l’invocazione iniziale; qui si stabilisce già il dialogo tra i due interlocutori principali del salmo: il credente che grida e il Signore che ascolta;
  • vv. 3-4: con l’invocazione di perdono, nella quale lo sguardo si sofferma su Dio, che è il misericordioso, colui che perdona. In questa strofa il salmo ci rivela il volto di Dio, la sua identità più segreta e personale;
  • vv. 5-6: ora lo sguardo si sposta sull’altro interlocutore, su colui che prega o, in termini più personali, sul mio ‘io’ che spera e attende il Signore;
  • vv. 7-8: nell’ultima strofa, secondo una dinamica tipica di questi salmi, lo sguardo si allarga: dal dialogo tra me e Dio giunge ad abbracciare il popolo intero; come io attendo il Signore, così lo attenda Israele; come Dio perdona le mie colpe, così perdona i peccati di tutto il popolo, «egli redimerà Israele da tutte le sue colpe».

 

L’attenzione alla struttura letteraria del salmo ci consente di cogliere un altro aspetto peculiare di questa preghiera: Il Nome santo di Dio ricorre ben otto volte in questo salmo (quattro volte con il tetragramma sacro impronunciabile – IHWH – e quattro volte con il termine Adonai; otto volte: 7+1, simbolo di assoluta pienezza); ricorre inoltre in modo regolare in tutto il salmo, due volte in ognuna delle quattro strofe. È un modo poetico molto efficace con cui il salmo ci annuncia la presenza rassicurante di Dio. Come il suo Nome pervade tutto il salmo, ed è presente in ogni sua strofa, in ogni suo versetto, così la sua misericordia pervade l’intera nostra esistenza e la più ampia storia degli uomini. Anche quando siamo nelle profondità di un abisso, che talora può apparire senza vie di uscita, anche quando siamo prigionieri delle tenebre del nostro peccato, il nome di Dio può comunque essere invocato. Egli è presente con la sua misericordia. Affiorano allora alla memoria le immagini bellissime di un altro salmo, il 138 (139): «Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti» (vv. 7-8).

 

Le quattro strofe, nella loro sequenza, mettono bene in luce un’altra tipica dinamica della relazione con Dio e con la sua misericordia. Nella prima strofa risuona il grido dell’angoscia: «Dal profondo a te grido Signore» (v. 1). Il testo ebraico ha peraltro un plurale, come giustamente traduce il testo latino della Vulgata: ‘dalle profondità’, de profundis. Nella terza strofa ecco il grido della speranza: «Io spero, Signore. Spera l’anima mia» (v.5). Tra questi due gridi, quello dell’angoscia e quello della speranza, al centro, nella seconda strofa, c’è la rivelazione e la conoscenza del vero volto di Dio: «Ma con te è il perdono: così avremo il tuo timore» (v. 4). È molto significativa questa costruzione: la rivelazione di Dio, che incontriamo nella seconda strofa, trasforma il grido di angoscia della prima strofa nel grido di speranza della terza. Anche l’abisso viene trasformato: all’inizio del salmo l’orante percepisce di essere in una profondità oscura, tenebrosa; ora percepisce di essere sì ancora in una notte, ma come colui che attende l’aurora, certo che la luce del sole verrà presto a rischiarare le sue tenebre.

 

Il credente diviene così una sentinella, che veglia, attende e spia in ogni cosa la venuta del Signore, attento a osservare e pronto a riconoscere ogni traccia, anche la più debole e insignificante, della sua prossimità, della sua vicinanza. Dietro questa immagine della sentinella possiamo intravedere due tratti del perdono di Dio. Innanzitutto la certezza: Dio perdonerà sicuramente, così come la sentinella, pur nel disagio e nello smarrimento della notte, è certa che presto una nuova aurora sorgerà a diradare le tenebre. In secondo luogo, la gratuità del perdono: la sentinella non può far nulla per meritare l’aurora, che tornerà a sorgere in modo gratuito; può solo attendere. L’attesa rimane tuttavia decisiva, perché solo per coloro che sanno attendere la nuova aurora non sorgerà inutilmente sulla loro vita. Chi non sa attendere, vegliare, sperare, rischia di rimanere nell’oscurità della notte, anche in pieno giorno.

 

Nella quarta e ultima strofa il dialogo, da questo rapporto interpersonale tra Dio e l’orante, si allarga a includere l’intero popolo: tutto Israele deve attendere il Signore; tutto Israele può sperare da lui la redenzione di tutte le sue colpe. In questa ultima strofa è pregnante l’immagine di totalità: c’è tutto il popolo con tutte le sue colpe. La misericordia Dio è talmente ampia che nessuno ne rimane escluso; grande è infatti presso di lui la redenzione: grande, larga, per tutti e per ogni peccato, anche il più grave. Il pellegrino, dopo aver fatto l’esperienza personale del perdono, ne diviene annunciatore e testimone per altri, anzi per tutti. Il suo rapporto così personale e intimo con Dio non è esclusivo, ma inclusivo: lo conduce in una più profonda comunione e solidarietà con tutto il suo popolo. In questa ultima strofa, il credente diventa davvero ‘sentinella’. Lo è perché spia e riconosce la venuta del Signore come una nuova aurora che ci libera dalle tenebre del peccato; lo è a maggior ragione perché è in grado di rincuorare l’intero popolo annunciando che il giorno della liberazione è vicino. È la dimensione profetica che dovrebbe vivere ogni cristiano verso tutti i suoi fratelli e sorelle e verso l’intera storia. Essere profeti significa che la propria speranza può e deve diventare la speranza di tutti. Che la nostra attesa può e deve diventare l’attesa di tutti. La sentinella è questo: un credente che, a motivo dell’esperienza profonda di Dio che ha personalmente vissuto, diventa capace, anche nella notte, di sostenere insieme a tutti, con legami profondi di fraternità, l’attesa del giorno che viene. L’attesa del giorno di Dio, della sua misericordia, della sua redenzione.

 

Scriveva, alcuni anni fa, don Pierangelo Sequeri: «Nel giorno che verrà non ci sarà chiesto quanta speranza nella risurrezione avremo saputo predicare, ma con chi ne avremo saputo sostenere l’attesa». Si tratta non di predicare in qualche modo una speranza, ma di sostenere l’attesa di tutti, e soprattutto l’attesa di chi da solo non ce la fa; occorre farlo con legami di fraternità, di prossimità, di solidarietà. Il cammino quaresimale ci chiede anche questa conversione: dall’angoscia alla speranza, dalla solitudine alla comunione, perché soltanto se sappiamo sperare per tutti e insieme a tutti, la nostra è davvero speranza nel Dio di Israele, nel Dio di Gesù Cristo.