Associazione Opera della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo

Vivere la Pasqua nel tempo

Tre giorni, un solo giorno!

Ogni anno, nella celebrazione eucaristica dell’Epifania, viene annunciata la data della Pasqua e delle principali feste liturgiche che da essa scaturiscono. «Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto, che culminerà nella domenica di Pasqua». Possiamo intendere queste parole in senso ampio e profondo: il Triduo, con il suo ritmo e il suo respiro, oltre a costituire l’evento culminante dell’anno liturgico, è il nucleo incandescente che genera e configura il modo di vivere il tempo dei discepoli del Risorto. Se la liturgia è culmen et fons, compimento e sorgente dell’esperienza credente, lo è proprio perché attualizza e ci consente di partecipare del mistero del Signore Gesù crocifisso, sepolto e risorto. Non dobbiamo infatti dimenticare, né trascurare il fatto che la Pasqua non solo viene celebrata nel tempo, ma essa stessa si dilata nel tempo, conosce cioè una durata temporale: tre giorni che diventano un solo giorno, il quale è evento di salvezza proprio perché accoglie in sé una durata non solamente cronologica, ma esistenziale, in quanto attraversa l’esperienza della sofferenza e della morte, della discesa nel sepolcro e negli inferi, della risurrezione e dell’ingresso in una vita radicalmente nuova.

«La fede cristiana secondo l’evangelo non si limita ad affermare che nell’esperienza di Gesù alla morte è seguita la vita, ma che quella morte in realtà è vita, quella sconfitta è vittoria, quel fallimento è salvezza (…) Per noi o è notte o è giorno, invece il paradosso del mistero fa della notte il giorno, perché la luce brilla nelle tenebre».[1]

Nella sua unità celebrativa, il Triduo ci aiuta a comprendere che la vittoria pasquale si manifesta come luce che risplende abitando in tutta la loro durata le tenebre del mondo. La ‘durata’ del Triduo pasquale è necessaria per celebrare con autenticità la Pasqua dentro la ‘durata’ della storia degli umani, che è come una grande veglia tesa alla piena manifestazione della gloria del Risorto. Solamente nei tre giorni del Triduo abbiamo il diritto di celebrare con verità e con gioia l’unica ora della vittoria pasquale del Cristo crocifisso e risorto. Celebriamo la risurrezione, infatti, sapendo che non siamo ancora risorti; confessiamo la nostra fede nella vittoria di Cristo sul peccato, sul male, sulla morte, ma in una storia che continua a essere sfigurata dal peccato, dal male e dalla morte; cantiamo l’alleluia pasquale, rimanendo però consapevoli che nella nostra gola continuano ad abitare il grido dell’angoscia e il silenzio dello smarrimento. Solo così possiamo celebrare la Pasqua, rimanendo presso la croce del Figlio e lasciandoci da essa attrarre nella luce della gloria, attraverso l’attesa e il silenzio del grande Sabato santo. Il Triduo, con la sua durata, ci consente di celebrare l’unica ora della Pasqua senza rimuovere la sofferenza della storia, ma accogliendo la luce che erompe dalle tenebre. Ha scritto don Giuseppe Dossetti, non si dà il Cristo della croce e il Cristo della gloria: sottolineando che Gesù è stato glorificato sulla croce, Giovanni intende dire che la gloria di Dio è stata crocifissa in Lui e così si è manifestata in questo mondo di ingiustizia.[2]

La gloria di Dio, essendo rivelazione della forma più alta dell’amore, quella di una gratuità che condivide, non può risplendere nelle tenebre del mondo se non come gloria crocifissa, perché capace fino alla fine (cf. Gv 13,1) di compatire e assumere su di sé il dolore del mondo. Illuminante è quanto scrive un grande teologo ortodosso, Alexander Schmemann:

Per la grande maggioranza di coloro che vanno in chiesa, i giorni ‘importanti’ della grande settimana sono il venerdì e la domenica, la Croce e la risurrezione. Questi due giorni, tuttavia, restano in qualche modo ‘staccati’. Vi è un giorno di tristezza e poi un giorno di gioia. In questa successione, la tristezza è semplicemente rimpiazzata dalla gioia… Ma, secondo l’insegnamento della Chiesa espresso nella sua tradizione liturgica, la natura di questa successione non è quella di una semplice sostituzione. La Chiesa proclama che Cristo ‘con la morte ha calpestato la morte’; ciò significa che anche prima della risurrezione si verifica un avvenimento nel quale la tristezza non è semplicemente rimpiazzata dalla gioia, ma è essa stessa trasformata in gioia. Il grande sabato è precisamente questo giorno della trasformazione, il giorno in cui la vittoria germoglia dall’interno stesso della sconfitta, quando prima della risurrezione ci è dato di contemplare la morte della morte stessa.[3]

 

Cantare l’alleluia pasquale

In questa prospettiva si chiarifica la celebre espressione del Prologo di Giovanni: «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (1, 5), dove il verbo greco katélaben può essere anche inteso «non l’hanno soffocata, non l’hanno vinta». L’ambiguità, probabilmente intenzionale, di questa espressione non allude semplicemente a una alternativa di significato; indica più profondamente un nesso intrinseco, che manifesta la qualità di questa luce: la luce splende nelle tenebre proprio perché si consegna alle tenebre, come lasciandosi da esse sopraffare. Così le vince, manifestando dentro di esse lo splendore e la gloria di un amore più grande,[4] che non ha esitato a donare se stesso e ha vinto l’odio e il peccato del mondo attraversandoli. Quella della Pasqua non è una luce che irrompe puntualmente nelle tenebre provenendo dall’esterno; al contrario, matura dentro di esse e ad esse consegnandosi, rivelando così che la debolezza della dedizione di sé, la fedeltà di un amore che condivide e compatisce, sono capaci di assumere le tenebre e di condurle nella luce. Le tenebre sembrano inghiottire la luce di Dio, ma di fatto la rivelano, perché mostrano che Dio ha scelto liberamente, per amore, di dimorarvi e di risplendere attraverso di esse. Ovunque nella storia le tenebre sembrano conquistare ambiti di dominio, di fatto aprono uno spazio in cui può tornare a manifestarsi l’amore debole e per questo vittorioso di Dio. Le tenebre si oppongono alla luce, eppure rimangono nella luce perché Dio, nella sua libera fedeltà, è disposto a rimanere nelle tenebre. E così le vince, attraversandole.

La storia che tutti viviamo ci costringe a domandarci che senso ha cantare l’alleluia pasquale in giorni nei quali tanta sofferenza, dolore, morte, ingiustizia, prevaricazione, continuano a segnare il cammino dell’umanità. Si pensi alla tragedia del terremoto che si è abbattuta sulla Turchia e sulla Siria, o alla guerra che da più di un anno insanguina l’Europa come accade in tante altre regioni, spesso dimenticate, del mondo. E fa arrossire i nostri volti di vergogna, per la nostra insipienza e incapacità. Abbiamo davvero diritto di cantare l’alleluia pasquale?

 

Il mistero del sabato santo

L’esperienza evangelica risponde a questo interrogativo costringendoci a un brusco salto di qualità. Il sabato di Israele esigeva di rimettere al centro del tempo Dio e di riequilibrare ciò che l’assenza di una vera umanità provocava quanto a ingiustizia e a iniquità nei rapporti sociali ed economici, oltre che religiosi. Rimettere al centro Dio deve infatti significare rimettere al centro l’umano autentico, configurato secondo l’immagine e la somiglianza con il suo Creatore. Il sabato santo dei cristiani invece ci fa scontrare con il silenzio di Dio, con la sua assenza, il che comporta inevitabilmente per noi smarrimento e disorientamento. Il sabato di Israele mette al centro del tempo Dio; il sabato della Pasqua mette al centro della nostra esperienza e della nostra fede l’assenza di Dio. O quella che tale ci pare essere.

È in questo sabato – che sta tra il dolore della Croce e la gioia di Pasqua – che i discepoli sperimentano il silenzio di Dio, la pesantezza della sua apparente sconfitta, la dispersione dovuta all’assenza del Maestro, apparso agli uomini come il prigioniero della morte. È in questo Sabato santo che Maria veglia nell’attesa, custodendo la certezza nella promessa di Dio e la speranza nella potenza che risuscita i morti.[5]

Questo è anche il nostro sabato, nel quale dalla sofferenza dell’umanità ferita salgono tante domande circa la presenza di Dio nella storia, il suo modo di intervenire, il suo silenzio. Anche la nostra fede è messa alla prova, se non scandalizzata. Oppure viene interrogata, e non sempre possediamo risposte pronte e sincere, non pietistiche o formali. Ma perché, si chiede Martini, fermarsi al sabato santo?

Non siamo forse già nel tempo del Risorto? Perché non lasciarci ispirare anzitutto dalla Domenica di Pasqua? Perché riflettere sullo smarrimento dei discepoli dopo la morte di Gesù e non invece sulla loro gioia quando lo incontrano vivente (cf. Gv 20,20: «E i discepoli gioirono al vedere il Signore»)?

È vero: siamo già nel tempo della risurrezione, il corpo glorioso del Signore riempie della sua forza l’universo e attrae a sé ogni creatura umana per rivestirla della sua incorruttibilità. Il nostro atteggiamento fondamentale deve essere di letizia pasquale.

E tuttavia la luce del Risorto, percepita dagli occhi della fede, ancora si mescola con le ombre della morte. Siamo già salvati nella fede e nella speranza (Rm 8,24), già risorti con Gesù nel battesimo quanto all’uomo interiore, ma la nostra condizione esteriore rimane legata alla sofferenza, alla malattia e al declino. Il peccato è vinto nella sua forza inesorabile di distruzione e però continua a coinvolgere innumerevoli situazioni umane e a riempire la storia di orrori. I poveri sono oppressi, i prepotenti trionfano, i miti sono disprezzati.[6]

 

Convertirsi e intercedere

Come lo viviamo, nella luce della Pasqua e dell’unità del suo mistero, questo sabato della storia? Dovremmo darci del tempo per rispondere a domande come questa. Io non sono in grado di farlo. Mi limito a due suggerimenti: il primo attiene alla conversione, il secondo all’intercessione.

Parlando di conversione, penso a una conversione teologica: dobbiamo passare dal volto di un Dio onnipotente al volto di un Dio fecondo e fedele. Alludo a una potenza che si manifesta come fecondità, cioè come possibilità di suscitare vita nuova laddove la morte e il male gettano i loro semi avvelenati e mortiferi. Dio torna a suscitare vita, come ha fatto dentro il sepolcro di Gesù e come continua a fare dentro i nostri innumerevoli sepolcri. E questo chiede anche a noi di diventare persone feconde, capaci di vivere un amore che sa suscitare vita e nuovi inizi laddove le logiche di morte sembrerebbero condurre le storie a finire in qualche modo. Storie personali, storie comunitarie. Occorre invece rimanere fondati su un amore che sa essere fecondo. Nei discorsi escatologici sono due i segni della prossimità del Regno: il radunarsi nella comunione e la fecondità di nuova vita che germoglia. In Marco 13,27, quando il Figlio dell’uomo viene, manda i suoi angeli a radunare «i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo». Subito dopo Gesù propone la parabola del fico, il cui «ramo diventa tenero e spuntano le foglie» (Mc 13,28). Siamo anche noi segno del Regno che viene, pur dentro le situazioni difficili che dobbiamo attraversare, se abbiamo cura di questi due atteggiamenti: essere persone che radunano, cioè capaci di relazioni vere, di intessere dialoghi, persone ospitali, di comunione. In secondo luogo, persone capaci di un amore fecondo, che suscita vita, avvia nuovi inizi, non si arrende alle difficoltà, immagina soluzioni, cerca nuove possibilità, e così via.

In secondo luogo, penso all’intercessione. Nel suo rotolo, il profeta Geremia si domanda:

Chi farà del mio capo una fonte di acqua,
dei miei occhi una sorgente di lacrime,
per piangere giorno e notte
gli uccisi della figlia del mio popolo? (Ger 8,23).

Dobbiamo avvertire il lancinante bisogno di una intercessione vissuta nella purezza del cuore e nell’abbondanza delle lacrime. La gioia intensa, quando è vera, ci fa piangere di commozione, di gratitudine, di attonita sorpresa. E le lacrime della gioia, se sono sincere e autentiche, si trasformano immediatamente in lacrime di intercessione e di compassione. Nasciamo dall’acqua custodita in un grembo materno, rinasciamo dall’acqua del battesimo e diventiamo uomini e donne veri, maturi discepoli e discepole del Signore, quando le lacrime della gioia o del pianto si tramutano in lacrime feconde, che fanno rinascere gli altri, poiché sappiamo intercedere per loro e compatire nella misericordia, con amore, il loro dolore. Allora non solo le nostre labbra o la nostra voce, ma le nostre stesse lacrime potranno, a buon diritto, cantare l’alleluia pasquale. E la notte sarà nella luce.

 


[1] Celebrare l’unità del Triduo Pasquale. 2. Venerdì santo: la luce del Trafitto e il perdono del Messia, edd. A. Catella – G. Remondi, LDC, Leumann 1995 (= Quaderni di rivista liturgica/Nuova serie, 9/2), p. 14.

[2] G. Dossetti, Introduzione, in L. Gherardi, Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno. 1898-1944, Il Mulino, Bologna 19945, pp. VII-LXVII: XXX.

[3] A. Schmemann, La settimana santa, in A. Schmemann – O. Clément, Il mistero pasquale, Lipa, Roma 2003 (= Betel, 15), pp. 5-42, qui p. 31.

[4] Intendo ‘amore più grande’ nel significato paolino di una carità che è ‘più grande di tutte’ (cf. 1 Cor 13,13); un amore che sorpassa ogni conoscenza in ampiezza, lunghezza, altezza e profondità (cf. Ef 3,18-19).

[5] C. M. Martini, La Madonna del Sabato santo. Lettera pastorale per l’anno 2000-2001, Centro Ambrosiano, Milano 2000, p. 10.

[6] Ivi, pp. 14-15.

 

dom Luca Fallica