Associazione Opera della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo

Incontrare Dio nell’ordinarietà della vita. Il Salmo 127 (128)

Parlare di Dio nelle lingue degli uomini e delle donne

La celebrazione della Pentecoste ha portato a compimento il tempo pasquale e ci ha di nuovo introdotti in quello che la liturgia romana ci fa chiamare «tempo ordinario». C’è molta sapienza in questo ritmo liturgico: il frutto maturo della Pasqua di Gesù è lo Spirito Santo, che accogliamo anche noi, come i discepoli radunati nella preghiera con Maria nel Cenacolo, ma poi lo Spirito ci spinge fuori, sulle piazze e nelle strade, là dove si svolge la vita ordinaria degli uomini e delle donne del nostro tempo. E ci insegna a parlare di Dio con le loro lingue, che non sono soltanto i linguaggi differenti delle diverse etnie e culture, sono anche i molteplici linguaggi dell’esperienza umana, del lavoro e degli affetti, delle relazioni e dei problemi quotidiani, della vita familiare e di quella sociale… Così Gesù parlava del regno di Dio, con le parabole che narravano della vita feriale dei pastori e dei contadini, dei pescatori e delle donne che impastavano il lievito nella farina. Sono anche queste le lingue nuove che dobbiamo chiedere allo Spirito di insegnarci, per parlare del Regno con le immagini dell’esperienza umana del nostro tempo.

 

Confidare in Dio nella vita quotidiana

Per illuminarci in questo passaggio dal tempo forte della Pasqua a quello più feriale del Tempo ordinario può essere utile pregare il salmo 127 (128), che appartiene a quella piccola e preziosa raccolta dei «Canti delle salite». Si trattava di salmi che accompagnavano a salita dei pellegrini verso Gerusalemme e il tempio, dunque all’incontro con il Signore, e che ora possono accompagnare anche la nostra ricerca di Dio nelle pieghe quotidiane della nostra esistenza.

Guardando ai due salmi che precedono immediatamente il Salmo 127, osserviamo che il Salmo 125 ricorda con forza la necessità di confidare in Dio per trovare stabilità e sicurezza; gli altri due salmi mostrano come questa confidenza debba innervare sia la storia di un popolo (il salmo 126) sia la vita quotidiana e familiare, in una città, nella casa, lavorando, nel rapporto con i propri figli (il nostro salmo, anche se questa riflessione si prolunga e si approfondisce nel salmo seguente, il 128).

La profondità del Salmo è che la dipendenza da Dio è considerata nella vita quotidiana: la casa, la città, il lavoro, tre ambiti della vita normale. È qui che l’uomo deve ricordare di dipendere da Dio. Non soltanto in alcuni momenti eccezionali, di grande dolore o di grande gioia; neppure soltanto nella preghiera, nelle opere buone, ma semplicemente nella vita quotidiana, nelle attività profane, ordinarie.[1]

Una riflessione importante, questa, non solo perché ci conduce ad assaporare la relazione con Dio in realtà che sono vicine alla nostra vita di ogni giorno, ma perché ci ricorda che l’alleanza con Dio deve contrassegnare la nostra esistenza anche in quegli ambiti in cui ci sembrerebbe di poter più facilmente bastare a noi stessi, o di poter rivendicare la nostra autonomia. La sapienza di questo salmo sta nel ricordarci

il primato dell’azione di Dio anche e proprio nell’esperienza del lavoro e della fatica, dove tutto sembra dipendere solo dall’uomo. […] [Il salmo in questo modo ci consegna] una provocazione a scoprire la presenza e a confessare il primato di Dio non ai margini e ai limiti della vita, in qualche situazione singolare ed eccezionale, bensì proprio al centro della vita quotidiana[2].

 

Nella possibilità di Dio

Occorre però aggiungere una seconda considerazione: la dipendenza da Dio non ci consegna a una passività, ma libera la nostra responsabilità e moltiplica le nostre energie, perché sapendo di poter confidare in lui e solo in lui, non in noi stessi, diventiamo consapevoli che tutto ciò che senza di lui ci è impossibile, con lui diventa possibile, come ricorda Gesù nei Vangeli quando afferma: a Dio nulla è impossibile. Tutto questo significa che confidare in lui non solo non ci fa vacillare, ma ci consente di condividere la sua stessa possibilità.

Il Salmo si divide infatti in due strofe: nella prima si ripete con forza «invano». Senza di lui invano costruiamo la casa (ma qui si intende non tanto la casa di pietra, ma la famiglia che la abita); invano custodiamo la città (e dunque, dopo le relazioni familiari e domestiche, ecco le relazioni più pubbliche, sociali, politiche, proprie appunto della polis, della città); invano lavoriamo per mangiare un pane di sudore. «Un pane di stenti», si potrebbe tradurre meglio. Si tratta comunque di una espressione importante, perché evoca il racconto della Genesi (3,17-19), quando, dopo il peccato, Dio dice ad Adamo «con il sudore del tuo volto mangerai il pane». Adamo, l’uomo che pretende di vivere un’autonomia da Dio, lavora invano e mangia un pane di sudore, mentre coloro che confidano in Dio al punto da addormentarsi pacificati confidando in lui, ben sapendo che il custode di Israele non dorme ma veglia (cf. Salmo 121), tutti costoro riceveranno gratuitamente il pane dal Signore nel loro sonno: «al suo prediletto egli lo darà nel sonno».

Questa prima parte del salmo (fino al v. 2) insiste su questa vanità dell’agire dell’uomo se si attesta nella pretesa di una indipendenza da Dio; la seconda parte del salmo ricorda invece qual è il dono di Dio. L’uomo da solo non può costruire la propria casa e la propria famiglia; ma Dio stesso gli costruisce una casa e una famiglia attraverso il dono dei figli: «ecco, eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo», ricorda il v. 3. L’uomo non può difendere e custodire da solo la città; ma i figli che Dio gli dona difenderanno il suo diritto «quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici». La porta della città nella cultura semitica era il luogo del tribunale, in cui si amministrava la giustizia e si dirimevano le cause. Ebbene, alla porta del giudizio l’uomo che confida in Dio non andrà da solo, ma con il dono dei propri figli, e sarà proprio attraverso di loro che Dio difenderà il suo diritto. Attraverso i figli: quindi l’azione di Dio compenetra e si rende presente nell’azione umana. Confidare in Dio non significa abdicare alle proprie responsabilità, o entrare in una pigrizia passiva e inoperosa; significa agire non in modo autonomo, ma facendo delle proprie energie lo spazio aperto in cui può operare la grazia e il dono di Dio. Un agire non solitario, ma in relazione con Dio, sapendo che la relazione con Dio arricchisce la nostra vita di tante altre relazioni, come quelle che un padre ha con i propri figli.

 

fr Luca Fallica




[1] B. Maggioni, Davanti a Dio. I salmi 76-50, Vitae Pensiero, Milano 2002 (= Sestante, 18), p. 225.

[2] P. Rota Scalabrini, Salmi di pellegrinaggio, in G. Facchinetti – P. Pezzoli – P. Rota Scalabrini, Scuola della parola. Diocesi di Bergamo, Seminario Vescovile, Bergamo 2000, pp. 127-128.